Teramo, covid, Giovanni Di Guardo scrive al British Medical Journal
Pubblichiamo la “Lettera all’Editore” a firma del professor Giovanni Di Guardo, docente di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria alla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Teramo, recentemente pubblicata sulla prestigiosa rivista British Medical Journal.
“Merrill Singer, antropologo medico statunitense, fu colui che utilizzò per la prima volta, negli anni ‘90, il termine “sindemia”. Come molte altre espressioni comunemente impiegate nel lessico biomedico, la parola “sindemia” deriva anch’essa dal greco e starebbe a indicare tutta una serie di condizioni morbose “concomitanti” – con particolare riferimento alle “malattie non trasmissibili”, quali in primis affezioni cardio-circolatorie e tumori – nonché un insieme di situazioni e variabili “socio-economiche” (densità demografica, livello igienico-sanitario e di istruzione, indice di povertà, etc.) e “climatologico-ambientali” (cambiamenti climatici, riscaldamento globale, deforestazione, desertificazione, etc.), che andrebbero tenute in debita considerazione ai fini di una corretta interpretazione dei dati relativi all’andamento di qualsivoglia “malattia infettiva”, a maggior ragione ove la stessa assumesse una diffusione globale, come nel caso della “pandemia da SARS-CoV-2”.
E, sebbene non vi siano dubbi in merito al fatto che la CoViD-19 rappresenti un’emergenza planetaria, tristemente denotata dalle oltre 1.600.000 vittime (65.000 e più delle quali nel nostro Paese!) che SARS-CoV-2 – il settimo coronavirus noto nella nostra specie – ha oramai mietuto, appare “riduttivo” considerare la CoViD-19 “soltanto” una pandemia. Solo per fare alcuni esempi a supporto della “visione” o, meglio ancora, della “prospettiva sindemica” per una corretta valutazione della “vicenda CoViD-19”, si potrebbero citare i disagi – in termini di accesso all’assistenza sanitaria e alle relative cure – patiti dai pazienti già affetti da pregresse condizioni morbose, quali malattie cardio-circolatorie e neoplasie, in primis. La gran parte di tali entità nosologiche, che costituiscono le due principali cause di morte nel mondo occidentale, interessa infatti gli individui in età geriatrica, un segmento di popolazione particolarmente rappresentato nel nostro Paese, che quanto a indice di longevità detiene un invidiabile primato su scala globale. I soggetti cardiopatici (soprattutto di sesso maschile) figurerebbero altresì, congiuntamente a quelli affetti da ipertensione arteriosa o da patologie tumorali, fra quelli più predisposti a sviluppare forme gravi di CoViD-19, necessitanti spesso di ospedalizzazione in apposite “unità di terapia intensiva”. E, visto e considerato che proprio fra questi ultimi si assisterebbe al maggior numero di casi di CoViD-19 a esito fatale, si entra così in un drammatico “paradosso”, in virtù del quale i pazienti cardiopatici, ipertesi e neoplastici, pur risultando quelli più “fragili” nei confronti delle conseguenze letali dell’infezione da SARS-CoV-2, non beneficerebbero, nell’attuale contesto assolutamente “CoViD-centrico”, di un livello di assistenza sanitaria pari a quello che ricevevano in “era pre-CoViD”. A quanto sopra si aggiungono le anzidette componenti “socio-economiche” e “climatologico-ambientali”, la cui analisi rende ragione, ancor più esaustivamente, della bontà della “prospettiva sindemica” rispetto a quella “pandemica”.
Quanto alle prime, l’infezione da SARS-CoV-2 ha assunto e continua a presentare caratteri di particolare gravità, infatti, in certi contesti geografici caratterizzati da elevata densità demografica, nonché da povertà e indigenza, promiscuità, bassi livelli d’istruzione e/o d’igiene personale (con particolare riferimento al rispetto delle ben note prescrizioni mirate al contenimento della diffusione virale).
Per quanto concerne le variabili “climatologico-ambientali”, il progressivo aumento delle temperature medie registrate sul nostro Pianeta, unitamente alla crescente desertificazione e deforestazione e al dissennato sfruttamento del suolo in attività di agricoltura intensiva, agirebbero sinergicamente moltiplicando le occasioni di reciproca interazione fra uomo e animali domestici, da un lato, e specie selvatiche, dall’altro. Queste ultime fungono spesso, come nel caso di pipistrelli e roditori, da “serbatoi” per una folta gamma di agenti patogeni. Ed è proprio in tal modo che avviene il famoso “salto di specie” (alias “spillover”) fra animali e uomo. È bene ricordare, in proposito, che almeno il 70% degli agenti responsabili di “malattie infettive emergenti” nella nostra specie riconoscerebbero una comprovata o presunta origine animale e anche SARS-CoV-2 non costituirebbe un’eccezione alla regola.
L’approccio “olistico” costituisce pertanto la chiave di volta non solo per affrontare e gestire al meglio, ma anche per prevenire e prevedere le future emergenze pandemiche. Tale concetto viene mirabilmente riassunto dall’espressione “One Health”, secondo cui salute umana, animale e ambientale costituirebbero una “triade” reciprocamente e indissolubilmente interconnessa”.