Roma, Festival dell’Oriente
Roma incontra il mondo. Per tre giorni intensi, alla Fiera di Roma, si sono succeduti spettacoli di danza (da quella sui pali a quella dei nativi americani, dalla danza coreana e del tango a quella del ventre), di musica popolare, di folklore, di arti marziali, di western e di wrestling, di frusta indiana, di guida sportiva, nonché conferenze e incontri con i più grandi artisti del momento.
Non sono mancati nei quattro padiglioni, dedicati ai Festival irlandese, argentino, country, dell’Oriente, spazi deputati alla degustazione e alla gastronomia dei diversi paesi presenti nell’edizione 2023. È stata una pregevole occasione per potere apprezzare il cibo proposto da veri chef, formati secondo una tradizione secolare. Ce n’era per tutti i gusti: pasti irlandesi, spagnoli, bavaresi, argenti, country, messicani, giapponesi, thailandesi, cinesi, coreani, indiani, srilanka, tibetani, vietnamiti, mediorientali, poke, marocchini. Singolare la presenza degli arrosticini abruzzesi tra cotanto “senno”.
Naturalmente, molti visitatori hanno considerato l’evento come l’opportunità per incontrare l’Unione Induista Italiana, per sperimentare un massaggio gratuito, per essere partecipi della cerimonia del thé giapponese o coreana, per farsi leggere il futuro, per accostarsi allo yoga o all’arte della meditazione, per fare esperienze spirituali anche con le campane tibetane, per avere a che fare con la riflessologia, etc.
Ogni padiglione si è caratterizzato per la ricostruzione di una casa o di un ponte giapponesi, di una “tepee” ovvero di capanna dei nativi americani, di figure simbolo come il Buddha sdraiato, i soldati di terracotta, i samurai, con le carrozze dei primi pionieri, con la riproposta di Stonehenge o di uno spaccato sui beduini del deserto.
Nei vari stand, all’interno dei padiglioni, con personale in abito tipico del paese, è stato anche possibile fare acquisti di tutti i generi: dall’agro-alimentare, alla cura del corpo, all’abbigliamento, all’arredamento.
Dell’evento 2023 abbiamo apprezzato due performances, entrambe proposte nei due padiglioni del Festival dell’Oriente e a firma di maestri giapponesi di taiko.
Com’è noto, trattasi di una musica giapponese di cui le origini si perdono nei tempi (anche se qualcuno la fa risalire al VII-VIII secolo d.C.). Viene realizzata con tamburi, i taiko. Erano usati in passato per incitare le truppe, dare comandi e spaventare gli avversari in guerra. Dapprima a carattere religioso (il suono dei tamburi oltrepassava le nuvole, giungendo agli dèi), divenne appannaggio di laici (partecipando alla vita e alla morte), fino a diventare musica portante di feste sociali e di insegnamento. Oggi esistono più di 8000 scuole di taiko al mondo.
Interessantissima è stata l’esibizione dei stimati e noti Manutaiko che ha fatto trasalire gli astanti per i loro corpi forti e agili, i sorrisi fini e miti, l’attenzione agli aspetti salienti della società, ma ancor di più si è ritagliata uno spazio di tutto riguardo la performance del M° Takuya. Il suo è stato uno spettacolo suggestivo in cui le sonorità tradizionali hanno emozionato l’uditorio, non solo per la “voce potente” dei tamburi ma anche per l’energia trasmessa. Il fruitore ha potuto prendere coscienza del fluire della vita; si è liberato (sia pure per 20 minuti) dei pensieri della vita, da condizionamenti, da schemi e da regole; è rientrato in armonia con la natura di cui rivela i valori positivi.
Indubbiamente, è emerso l’impatto scenico dei tamburi taiko al centro del palco ma anche l’autenticità di Takuya, un artista dalla grande personalità che ha dato l’anima, attraverso la sua rapidità sorprendente, al fine di ricondurre il pubblico all’epicentro della sua vita, alla musica che coltiva da anni, alla realtà interiore.
La sua è stata una testimonianza preziosa e viva dell’identità giapponese che affascina l’Occidente. Takuya ha liberato il cuore dei presenti e ha lasciato una traccia indelebile in chi l’ha udito. La sua musica appassionante supera ogni frontiera e, dicerto, resta per i suoi suoni aleggianti e per il rispetto dell’alterità, in quanto apre a “una grammatica delle relazioni umane” e invita a comprendere come “la musica possa unire le genti”.